In queste ore in tanti stanno esprimendo un pensiero (un ricordo o una riflessione) sulla Gazzetta del Mezzogiorno la “voce” di Puglia e Basilicata che dopo 134 anni ha fermato le macchine, un evento evitato persino con due Guerre Mondiali e un fallimento.
Chi scrive è entrato per la prima volta nella Redazione di via Scipione l’Africano (la seconda sede dopo quella di piazza Roma) con i “bermuda”: avevo poco più di 16 anni, ero orfano di padre da meno di 5 anni (quindi ero figlio di “nessuno”) e avevo abbandonato gli studi superiori per lavorare e contribuire al mantenimento della famiglia. Unico “titolo” in mio possesso era un diploma di soccorritore, certificazione che aveva coronato un mio lungo periodo come volontario del soccorso nelle due organizzazioni esistenti a Bari all’epoca, Oer e Serbari.
TUTTO INIZIO’ PER GIOCO
Iniziai quasi per “gioco” (volevo fare il poliziotto) e ricordo ancora oggi l’emozione che provai quando incontrai una sera, per la prima volta, il direttore-editore Giuseppe Gorjux. Durò un paio minuti, l’incontro avvenne vicino all’ascensore e si concluse con una stretta di mano e un “mi raccomando”.
Da quel momento capii che ero entrato a far parte della “famiglia” della Gazzetta anche se dovevo iniziare una piccola scalata. E c’era una condizione da rispettare: riprendere gli studi. E così accadde. La mattina andavo a scuola, il pomeriggio al giornale a macinare ore e ore al fianco di colleghi per conoscere le basi di una delle più belle professioni del mondo.
Ero il più piccolo, fui adottato dal cronista d’assalto dell’epoca, Dionisio Ciccarese, che divenne il più giovane capocronista con la più giovane redazione di cronaca (eravamo tutti ventenni).
Fui letteralmente “accolto” come un figlio, diventai la mascotte della Redazione e il battesimo del fuoco fu la scrittura della notizia dell’arresto di uno scippatore in piazza Garibaldi, a due passi da casa mia.
“COMANDA(VA) LA NOTIZIA”
La Gazzetta mi ha forgiato professionalmente, mi ha aiutato a comprendere la notizia, a cercarle e soprattutto ad approfondirle, consentendomi di crescere nel corso degli anni e di fare carriera. “Quando scrivi pensa con la testa di chi ti legge…” era il leit motiv. Tutti insegnamenti che con l’avvento di Internet e con una politica degli editori incentrata sui costi, sono vaporizzati nel tempo.
La Gazzetta mi ha regalato i più bei momenti della mia vita: vivevo in redazione, talvolta uscivamo la sera e poche ore dopo ci chiamavano per un attentato o una sparatoria. Un’ora dopo la nascita della mia prima figlia, lasciami mia moglie e la piccola in ospedale, e tornai in Redazione.
Eravamo sempre sul pezzo e, quando alzavamo il telefono e pronunciavamo la parola magica “Gazzetta”, vi assicuro che dall’altra parte c’era grande rispetto.
Mi sono occupato di cronaca nera, giudiziaria, amministrativa, sono stato il primo cronista del Tar: ho collezionato tra la seconda metà e la fine degli anni Novanta una serie di scoop che hanno proiettato bari sulla scena nazionale (mio il “colpo” sul progetto di attentato a Tatarella, quand’era vicepremier). E poi dopo una esperienza “esterna” sono tornato al primo amore.
Abbiamo messo in fila inchieste che hanno fatto tremare i potenti e fino a poco tempo fa il nostro brand era simbolo di una vice autorevole. Molti colleghi non ci sono più e alcuni di loro li ricordo ancora con tanto affetto perché, per loro, sono sempre stato “Nicolino”.
DALL’EDITORE PER 20 ANNI ALL’EDITORE PER 7 MESI
Per oltre 20 anni (dal 1997 al 2018) La Gazzetta del Mezzogiorno ha avuto un editore siciliano (Ciancio), negli ultimi tre siamo passati dai commissari giudiziari nominati dal tribunale di Catania (per un sequestro dei beni dell’ex editore poi cancellati in appello e in Cassazione), ai commissari del Concordato proposto da una Cavaliere Bianco dissolto dopo il crac della Popolare di Bari, ai curatori fallimentari dopo l’abbandono di Ciancio, per finire a un editore… provvisorio.
Quella data del 31 luglio che ha scritto la storia (triste) della Gazzetta, è figlia di interessi economici, imprenditoriali e politici che hanno trasformato noi lavoratori in un campo di battaglia. Augurandoci che un contributo a questa situazione non sia arrivato da oscure congiure di palazzo che hanno scambiato il “potere della notizia” con la “notizia al potere”.
Le sorti del giornale che ha raccontato per 134 anni la storia di due regioni e del Mezzogiorno, gestito per decenni dal Banco di Napoli, punto di riferimento della politica “vera” a partire da Aldo Moro, ora dipende dalle procedure gestite da 4 curatori fallimentari, due giudici e un esercito di avvocati, espressione di un sistema che in un anno non è riuscito a organizzare una procedura per la vendita della Testata.
IL FUTURO CHE VERRA’ E I TELEFONI IN REDAZIONE
In questo cannonneggiamento continuo che vede da 8 anni noi dipendenti e le nostre famiglie a pesanti sacrifici economici, dal 1 agosto abbiamo aggiunto la perdita della dignità del posto di lavoro. Una situazione di limbo che ci sta consumando le ultime forze mentre assistiamo a una vergognosa passerella di ipocrisia o fuga dalle responsabilità, in cui la preoccupazione principale sembra quella di salvare la faccia ma non salvare il giornale.
Questi sette mesi sono stati difficili per tutti noi, abbiamo dovuto affrontare ulteriori e pesanti sacrifici, fra tagli sulla busta paga, riduzioni di organico, riorganizzazioni la cui efficacia non sta a me giudicare, problemi tecnici. Ma all’orizzonte c’era la tenuta del giornale e la rosea previsione che tutto sarebbe cambiato. Poi in 24 ore tutto si è sciolto come neve al sole.
Nessuno può prevedere il futuro, tuttavia al nuovo editore (perchè prima o poi arriverà tra i due “contendenti”) ricordo che una Redazione senza telefoni è come un ospedale senza letti. Salvo che qualcuno non voglia chiedere ai malati di portarsi i materassi da casa.